Comincia con un quesito l’ultimo evento organizzato dall’AIS BARI il 23 marzo u.s.: La fermentazione alcolica, lieviti selezionati SI o NO?
La Delegazione Barese, capitanata dal Delegato Cav. Raffaele Massa, nell’ottica della formazione e dello studio, ha voluto proporre una serata di approfondimento su uno dei temi che più appassiona e divide enologi e produttori. E così, nel prestigioso Hotel Palace di Bari, alla presenza di un numeroso pubblico, il Dott. Lino Carparelli, enologo di rinomata fama, e il Sig. Giuseppe Angiuli, in rappresentanza della Cantina Angiuli Giuseppe, si sono confrontati sul tema dei lieviti selezionati ed indigeni. A dare inizio al dibattito è stato il Dott. Carparelli, il quale, con un’ampia disamina, ha chiarito la funzione dei lieviti nella fermentazione alcolica. In realtà, per millenni l’uomo ha fatto il vino ignorando l’esistenza dei lieviti. Fu solo all’inizio dell’Ottocento, ha raccontato il Dott. Carparelli, che la fermentazione del mosto d’uva venne posta in relazione con l’attività di microscopici funghi dello zucchero, denominati saccaromiceti, grazie agli studi di Louis Pasteur, il quale nel 1872 allestì il primo esperimento di enologia dei lieviti vinari.
E così, a partire dai primi decenni del secolo scorso ebbe così inizio una lunghissima serie di selezioni volte ad individuare, nelle uve, nei mosti e nelle superfici di cantina, i ceppi di lieviti più adatti alla produzione del vino. Infatti, tra i numerosi ceppi esistenti, alcuni risultano del tutto inappropriati, in quanto muoiono con basse concentrazioni di alcool, determinando blocchi di fermentazione e conseguenti innalzamenti di acidità volatile; altri, invece, appartenenti principalmente al genere Saccharomyces, sono in grado di trasformare in modo ottimale i mosti, in quanto più vigorosi e alcol-tolleranti. Dunque, nella moderna enologia, l’impiego di ceppi commerciali di Saccharomyces cerevisiae per indurre la fermentazione alcolica è una pratica diffusa in quanto ritenuta efficace per il controllo della durata del processo fermentativo e per garantire la qualità del vino. Tuttavia, nel corso degli ultimi anni si è consolidata l’opinione che l’uso di queste colture, solitamente selezionate in pochi Paesi stranieri, concorra ad uniformare l’aroma e il gusto del vino compromettendo la possibilità di diversificare il prodotto finito sul mercato. Conseguentemente, complice la diffusione di aziende che si dedicano alla viticoltura biogica o biodinamica, molti produttori hanno abbandonato la fermentazione alcolica inoculata a favore di quella spontanea, cioè condotta dai lieviti naturalmente presenti sulle uve.
Questa idea ha quindi portato a parlare di lieviti “autoctoni” o più correttamente “indigeni”. Ma, attenzione, ha ammonito il Dott. Carparelli: bisogna distinguere il terroir dalla fermentazione. Questa dipendenza tra lieviti e luogo non è dimostrata! Anzi, al contrario, è stato dimostrato che i Saccharomyces raramente si trovano sulla buccia dell’uva, molto più frequentemente sono presenti in cantina e si moltiplicano con le operazioni di ammostamento.
Il fatto, poi, che essi vengano portati da vento e insetti fa sì che possano arrivare da zone differenti rispetto al luogo in cui si posano. In definitiva, ha affermato il Dott. Carparelli, i lieviti selezionati difendono il vino dai rischi connessi alla “spontaneità” del processo di fermentazione innestato dai lieviti indigeni, da odori sgradevoli e da acidità volatile, garantendo la produzione di un vino di qualità, obiettivo ultimo che i produttori devono perseguire. Ma produrre vini di qualità è altresì l’obiettivo di chi, come il Sig. Giuseppe Angiulli, si affida, quando possibile, alla fermentazione spontanea.
Proseguendo nella attività dei progenitori che non disponevano di lieviti selezionati, ancora oggi la nuova generazione della famiglia Angiuli affida la produzione, per il 10%, a fermentazioni spontanee, che vengono effettuate solo nelle annate in cui, l’enologo e i titolari dell’azienda, verificano, tramite accurati controlli sui lieviti presenti sulle bucce dell’uva, che effettivamente dette fermentazioni possano partire. Una particolare predisposizione in tal senso viene riscontrata sulle uve primitivo, in cui la presenza di alcuni acini appassiti invita moscerini ed api a trasportarvi i lieviti. Vinificando le stesse uve primitivo con lieviti aggiunti e senza, i titolari della cantina Angiuli hanno potuto verificare che nel mosto fermentato spontaneamente vi era una maggiore ma accettabile quantità di acido acetico, così come una maggiore quantità di glicerolo. Dopo gli interventi dei relatori, si è passati alla degustazione, al fine di stimolare il pubblico a valutare come, i due metodi di fermentazione, possono influenzare il prodotto finale.
La degustazione, magistralmente condotta dal Dott. Francesco Campione, relatore Ais, ha riguardato tre tipologie di vino, uno spumante, un rosato e un rosso, di cui sono state degustate sia tipologie ottenute da lieviti selezionati, sia tipologie ottenute da lieviti indigeni, quest’ultime prodotte proprio dalla azienda Angiuli.
Il primo spumante degustato è stato Apnea, Spumante Brut Charmat Vegano, Giancarlo Ceci, un metodo charmat, ottenuto da uve pampanuto, di cui si è apprezzato il perlage fine e persistente, le note olfattive di melone bianco e di salvia su fondo di nocciola tostata, la lunga e vivace freschezza. Il secondo spumante degustato è stato il Maccone Vino Spumante Brut Ancestrale 2012, sboccatura 2017 unico nel suo genere, in quanto non sottoposto a rifermentazione con lieviti aggiunti, ma imbottigliato durante la fermentazione in modo che essa continui in bottiglia; detto procedimento conferisce al prodotto note citrine di lime e pompelmo, percepibili sia all’olfatto che al gusto in luogo dei caratteristici sentori di crosta di pane determinati dai lieviti durante la rifermentazione. Per la categoria dei rosati sono stati confrontati il Pungirosa 2017, Rosato, Rivera, prodotto da uve Bombino nero; rosa tenue ma luminoso, elegante e delicato, al naso ha regalato intense note di fragoline di bosco, mentre il sorso ha colpito per l’equilibrio tra l’acidità moderata e la scia sapida. A seguire il Maccone Rosato 2017, Primitivo di Gioia del Colle; prodotto da uve primitivo allevate ad alberello da circa 60 anni e vinificato senza aggiunta di lieviti, questo rosato con titolo alcolometrico di 17°, si è presentato di un affascinante color ramato, regalando intensi sentori di frutti di bosco al naso, mentre al palato ha colpito per morbidezza, rotondità e struttura. Infine, sono stati degustati i rossi, a partire dal Nero di Troia 2014, Alture, Paolo Leo, vino firmato dal presente dott. Carparelli; da fermentazione con lunga macerazione a temperatura controllata, riposa solo in acciaio per dieci mesi e si presenta di un rosso rubino intenso, naso prorompente fruttato, con note di liquirizia e chiusura un po’ dolce, mentre il sorso è rotondo, ben equilibrato e ravvivato da una buona freschezza. Infine è stata la volta del Maccone Rosso 2017, Primitivo di Gioia del Colle, anche questo frutto di fermentazione spontanea; colore rubino cupo impenetrabile, sentori di susina, prugna e amarena, al palato è abbastanza morbido, con tannini moderati e finale persistente.
Non è stata una “gara” tra lieviti, ma un costruttivo confronto. E forse al termine della serata il dubbio è rimasto: lieviti selezionati si o no? Ad ognuno, l’ardua sentenza.
Maria Carmela Santoro
Sommelier Ais Bari